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di Massimo Marottoli

Adriano Bertolini (foto Riforma/Romeo)

Il 20 ottobre le chiese evangeliche genovesi hanno salutato Adriano Bertolini che, all’età di 53 anni, ha dovuto cedere alla malattia che l’aveva colpito da alcuni mesi. Membro della Tavola valdese dal 2008 fino al recente sinodo, era professore negli istituti di scuola secondaria superiore, e dal 2006 era dirigente scolastico. Dal luglio 2007 era stato eletto segretario generale della Federazione lavoratori della conoscenza della Cgil di Genova e della Liguria.
Riportiamo il testo della predicazione tenuta dal pastore Massimo Marottoli durante il funerale.

«Chi ci separerà dall’amore di Cristo? (...) Infatti sono persuaso che nulla potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 8, 35 ss.).
Queste parole sono state più volte condivise, riflettute insieme a Adriano nel corso di quasi trent’anni di amicizia. Sono parole il cui senso egli ha vissuto nella quotidianità dell’esistenza credente.
Un suo ex allievo mi diceva tempo fa che Adriano è stato l’unico tra i professori da lui avuti che si fermasse a parlare con i suoi studenti. Li ascoltava, li accoglieva come un maestro fa con i suoi discepoli - più che come semplice docente. Gli interessava sentire e capire le ragioni di eventuali disagi, o difficoltà; o anche perché riteneva fosse giusto fermarsi ad ascoltare chi stava istituzionalmente dall’altra parte della barricata. Sapeva che senza l’ascolto e la riflessione, senza uno scambio dal quale potesse emergere lo spirito dell’interlocutore, non ci sarebbe stata vita che avesse potuto trovare la propria via di realizzazione, pure minima, ma dignitosa. E questo era per lui tanto più importante, quanto più riconosceva nel volto dell’altro il soggetto debole, bisognoso di essere accompagnato, consigliato, ascoltato – come un soggetto adolescente. Sapeva riconoscere dignità ai suoi interlocutori. Era mosso da una profonda passione per la ricerca del confronto delle posizioni e del dibattito. Amava il pensiero e amava averne il kantiano coraggio, non meno di quanto amasse impegnarsi e portare tale coraggioso pensare condiviso nella vita civile, politica, sindacale, scolastica, ecclesiale.

Amava l’Evangelo e amava quelle parole di Romani 8. Aveva una passione, per la forza di quell’annuncio, che lui stesso ha confermato personalmente pochi giorni prima di lasciarci, quando mi ha ripetuto che nella vita di ciascuno di noi si presenta sempre un momento in cui siamo chiamati a fare una sintesi. Io non so se questo sia vero sempre, per tutti. Più volte, negli anni passati, abbiamo dibattuto l’argomento. Io, più scettico; lui più fortemente radicato in questa convinzione che si incardinava nelle parole dell’apostolo Paolo. Non so se sia vero che per ogni vita umana si presenta il momento di una sintesi. Quello che è più sicuro, in ogni caso, è che corre una bella differenza tra il fare una sintesi, o un bilancio, alla fine della propria vita, e il fare una sintesi a partire dalla quale, invece, rilanciare e riprogettare la propria vita nel servizio, nella testimonianza, nell’impegno sociale e civile.

Adriano l’aveva fatta ben prima di giungere al termine della sua lotta. Aveva in mano la propria sintesi. Aveva agguantato il suo punto di forza, su cui reggere la nuova esistenza credente, ovunque fosse chiamato a portarne il seme. E questa sintesi, l’Evangelo da lui amato, ha saputo condividere. Nella fede ha vissuto la speranza cristiana e nel rendervi testimonianza ha imparato a perseverare. Lo sapeva da prima, e più recentemente ha imparato cosa vuol dire resistere in una condizione che deve avergli suscitato non poche domande, dubbi, incertezze. Eppure, negli ultimi giorni, da un paio di frasi ho capito come egli avesse verbalizzato di nuovo, in poche parole, il succo della sua vita credente, chiamata infine a una lotta estrema e nella consapevolezza che nessuno e nulla lo avrebbe separato dall’amore di Dio in Gesù Cristo.

La sua scomparsa separa noi da lui; ci separa dal figlio, dal marito, dal padre, dall’amico, dal sindacalista, dal professore e maestro di tante lezioni di diplomazia e di ascolto. Ci separa dal fratello in fede. Ma lui non è separato dall’amore di Dio. Avremmo voluto tenerlo con noi, certo! Ma appunto - questo, Adriano lo aveva creduto e perciò capito – non c’è parola dell’Evangelo che indulga ad alcuna forma di egoismo, neppure quello che ci fa piangere perché qualcosa di importante ci è stato strappato via. E questa parola dell’apostolo Paolo, non a caso riferimento di sempre della fede dell’amico, ne è l’espressione più matura e più densa.

Adriano ha amato tanto quest’Evangelo e per questo ha amato la libertà sua, insieme a quella degli altri. Sono libero – diceva – perché posso separarmi da questo mondo, ma nessuno e nulla potrà separarmi dall’amore di Dio. Un amore che ci appartiene in morte e in vita e supera la frattura che separa il presente dal futuro, come supera tutto ciò che oggi ci separa da chi amiamo. Supera la frattura che la morte produce in noi per dirci che la speranza della vita eterna – e della vita in cui con tutti i santi potremo delibare il pane e il vino del Signore – ci scioglie dagli egoismi e dalle gelosie, di chi vorremmo tenere per noi, facendoci liberi nell’amore di Dio, dal quale nessuno di colui che crede in Lui potrà essere separato.

Addio, fratello caro, fino a quel giorno - per tutti nuovo - in cui prenderemo il pane e il vino dalle mani di nostro Signore.

Tratto dal settimanale Riforma del 31 ottobre 2014