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L’espressione “essere chiesa insieme” è linguisticamente una tautologia. Che cosa significa “tautologia? Significa ripetizione o modo diverso di dire la medesima cosa. E che cos’è la chiesa se non un “essere insieme”? Eppure abbiamo scelto questa espressione, che dovrebbe essere scontata, per definire il processo di integrazione reciproca con le sorelle e i fratelli evangelici provenienti da altri continenti, processo che non è affatto scontato. Infatti, diversamente da altre denominazioni evangeliche italiane ma anche europee e nordamericane, la nostra chiesa ha preferito aprirsi alla presenza delle sorelle e dei fratelli immigrati piuttosto che incoraggiarli, magari con espressioni di fattiva solidarietà, a costituire le proprie chiese “etniche”.

Non è stata una scelta compiuta a cuor leggero ma frutto di lunghe discussioni e dialoghi, anche in sedi internazionali. I nostri rapporti con chiese sorelle ghanesi, filippine, e con quelle aderenti alla comunione di chiese nota come CEVAA sono stati improntati a questa strategia di accoglienza e scambio. Questo è un dato ecclesiologico da assumere con grande senso di responsabilità, con quel senso della storia e della democrazia che ha sempre caratterizzato le nostre istituzioni. È stata la nostra chiesa a incoraggiare questi fratelli e queste sorelle a camminare con noi, e in più di qualche caso ha dovuto spiegare alle loro chiese di provenienza il senso di questa scelta. Che resta molto difficile, dal momento che l’attrazione e la vitalità di “chiese etniche concorrenti” è molto forte, non solo per fattori linguistici e culturali, ma anche per la “distanza” tra i modelli prevalenti teologici, ecclesiologici e etici che abbiamo maturato in Europa rispetto a quelli di cui sono portatori le sorelle e i fratelli che arrivano dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina.

Poco più di vent’anni – da tanto dura questo particolare cammino – sembra un tempo lungo per valutare una scelta. In realtà non è così sia perché il picco degli arrivi di immigrati evangelici è più recente sia perché siamo di fronte a un processo sociale ed ecclesiologico che si gioca sui tempi di più generazioni. Inizia a emergere, infatti, una nuova generazione di giovani, figli di immigrati che, anche grazie al lavoro della Federazione giovanile evangelica, si stanno attivando nelle nostre chiese. Una valutazione del processo “Essere chiesa insieme” deve assumere anche questo dato ancora non disponibile: una volta divenuti adulti, questi giovani che chiesa sosterranno? Quale sarà il loro contributo alle chiese metodiste e valdesi? In che misura lo spirito di integrazione vissuto nelle comunità locali li rafforzerà nel loro impegni nella e per la chiesa, nella e per la società italiana?

C’è quindi un “domani”, oltre che un “oggi”, da tener presente e di cui essere responsabili. Senza dimenticare che, in una società che ancora oggi respinge gli immigrati, le nostre chiese sono state e sono laboratori vivi di integrazione, incontro e scambio, e che molte di esse sono state dinamizzate da questa integrazione di novità e di diversità.

Il cammino, dunque, è ancora lungo e il fatto di volere una chiesa in cui vivano culture e tradizioni diverse non deve impedire che ogni chiesa cerchi la propria strada, modi e tempi dell’integrazione, delle forme della propria interculturalità: dalla formula della chiesa strutturalmente integrata a quella prevalentemente etnica. Il nostro ordinamento ecclesiastico ci offre strumenti di collegamento e coordinamento che consentono di stare insieme pur nella particolarità delle esperienze e delle identità.

Eugenio Bernardini

7 maggio 2013