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Un ricordo del past. Pietro Valdo Panascia a 50 anni dalla strage di Ciacculli
il pastore Pietro Valdo Panascia

Il 30 giugno del 1963, cinquant’anni fa, la mafia commise una delle sue stragi più sanguinose: nella borgata palermitana di Ciacculli uccise sette tutori dell’ordine. Una strage interpretata a quell’epoca come criminalità comune, quasi fisiologica. Fu contro questa interpretazione che intervenne il pastore valdese Pietro Valdo Panascia facendo affiggere nella città di Palermo, all’indomani della strage, un manifesto che si concludeva con una scritta a caratteri cubitali: "È Dio che ordina di non uccidere". Con quella chiusura Panascia intendeva rivolgere un appello alle coscienze, persino a quelle dei mafiosi e dei loro complici silenziosi: il suo era un intento evangelico, potremmo dire un tentativo di predicazione. Le sue erano le parole di un credente che reagiva all’idea che uomini e donne, che si dichiaravano cristiani, potessero restare inerti di fronte alle stragi e alla violenza mafiosa.

In realtà, le frasi del manifesto che suscitarono la reazione indispettita e malevola di molte personalità istituzionali, e tra queste dell’arcivescovo di Palermo, cardinale Ernesto Ruffini, furono altre: quelle in cui il pastore valdese chiedeva "misure per reprimere ogni atto di criminalità che con così preoccupante frequenza insanguina le vie della nostra città" e, rivolgendosi a quanti avevano responsabilità civili e religiose, invocava "opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana".

Come noto, quelle parole giunsero alla Segreteria di stato vaticana che ritenne di dover intervenire sull’arcivescovo di Palermo suggerendo l’opportunità – con la nota prudenza del linguaggio diplomatico vaticano – di dissociare la "mentalità della cosiddetta mafia da quella religiosa". La risposta della curia palermitana fu perentoria e persino irriverente: per il cardinale Ruffini il manifesto di Panascia era "un ridicolo tentativo di speculazione protestante", mentre l’intreccio tra religiosità è mafia costituiva "un’interpretazione calunniosa messa in giro, soprattutto fuori dall’isola dai social comunisti". Un anno dopo il cardinale precisava ulteriormente il suo pensiero lanciando strali contro intellettuali come Danilo Dolci o romanzi come Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, responsabili della "cattiva fama" dell’isola.

Panascia reagì alla lettera pastorale con un articolo sul quotidiano di Palermo L’Ora del 9 aprile 1964 denunciando come il porporato non facesse cenno "agli omicidi, ai crimini che fino a pochi mesi fa si verificavano con una frequenza impressionante e insanguinavano le vie affollate della città ... alla condizioni inumana in cui vivono [...] centinaia di famiglie [...]. Dire queste cose – concludeva il pastore – non è fare il denigratore, ma denunciare uno stato di cose di cui ogni cittadino e ogni cristiano soffre, perché queste cose sono cose che si vedono ogni giorno".

Quella di Panascia fu una testimonianza antimafia quando ancora la mafia "non esisteva" ed era quindi impossibile combatterla e tanto più sconfiggerla; la sua, come accadde per altri testimoni, come il già citato Dolci, restò a lungo una voce isolata e controcorrente. I tempi delle manifestazioni antimafia erano ancora molto lontani e il contrasto alla criminalità organizzata era affidato a qualche pattuglia di carabinieri. Saranno gli Anni ’70, con l’azione di giornalisti come Mauro de Mauro e di magistrati come Cesare Terranova, a interpretare la mafia come "sistema" demolendone così quella lettura complice e strumentale, in chiave romantica e persino giustizialista, avallata da personalità come il cardinale Ruffini. Non a caso cito due vittime, due di una serie che negli Anni ‘80 e ’90 si sarebbe allungata tragicamente.

Al fondo fu l’intuizione di questa tragedia che mosse Panascia a compiere un gesto irrituale, sia pure per un pastore di una piccola comunità di fede pronta e abituata a andare controcorrente. Egli aveva coscienza che insita nella cultura e nell’azione della mafia – oggi diremmo delle mafie – vi è una violenza incompatibile con il messaggio evangelico. Il credente – questo cercò di dire – non può far finta di non vedere, è chiamato a assumersi delle responsabilità e a schierarsi. E Panascia lo fece dedicando le sue migliori energie all’educazione e al recupero di ragazzi che, in assenza di un centro di riferimento e di un luogo dove formarsi e crescere, avrebbero rischiato di restare vittime del "sistema mafioso". Il Centro Diaconale e le sue varie attività nel quartiere La Noce costituiscono ancora oggi la prova di questo impegno contro la mafia e le sue culture.

Ricordare la strage di Ciacculli non avrebbe senso se non per raccontare ciò che quel brutale fatto di sangue innescò: una prima, timida presa di coscienza della natura intrinsecamente violenta, terrorista ed eversiva della mafia. Con il rispetto che si deve alle vittime di quella strage, la nostra memoria oggi deve andare ai piccoli semi che nei giorni successivi furono piantati dai tanti testimoni ignoti o anonimi che giorno dopo giorno sono riusciti a spiegare qual è il prezzo – umano, sociale, democratico – delle mafie. E tra essi, ovviamente, ci fa piacere ricordare un pastore valdese che, Bibbia alla mano, nel momento giusto seppe dire la parola necessaria.

Eugenio Bernardini

6 luglio 2013