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di Alessandra Trotta

Uno studente della Facoltà valdese di Teologia, pochi giorni fa, mi ha posto una domanda sulle ragioni della scelta, sancita dal Patto di Integrazione del 1975, di mantenere una centralità al nome “valdese” per indicare la realtà ecclesiastica nata dall’Unione delle chiese valdesi e metodiste, invece che usare (come fatto da chiese protestanti unite di altri Paesi) un nome che non fosse connotato da un riferimento denominazionale che intenzionalmente richiama «le caratteristiche del movimento e delle chiese valdesi quali le attestano la loro storia e la collocazione nella testimonianza protestante in Italia».

Il cinquantesimo anniversario del Patto di Integrazione offrirà il prossimo anno molte occasioni per illustrare il senso e le motivazioni dell’originale modello ecumenico di unità nella diversità realizzato con quel Patto. All’inizio di questo anno ricco di iniziative collegate sotto il logo Valdesi 850anni, vale la pena, però, di partire proprio dal portato di immaginario, di sentimenti, di continuità di ideali e impegno di testimonianza di un nome che origina da quello dell’iniziatore di un movimento di rinnovamento evangelico del XII secolo, che penetrò ben presto in Italia e ben oltre i confini ristretti delle Valli delle Alpi occidentali in cui solo ha potuto resistere nei secoli delle peggiori persecuzioni.

Il nome di un iniziatore – bene dirlo – non mitizzato, di cui (come di altre figure di rilievo di una storia lunga, appassionante) non si è fatto un santo. Attenti a sottrarci anche al rischio mortale di santificare o di predicare la nostra storia, ma insieme convinti che in questa storia umana, non solo nelle pagine epiche e gloriose, ma anche nelle sue cadute e contraddizioni, nelle luci e ombre, grandezze e miserie, si rinvengono le tracce delle opere di liberazione incessantemente compiute dal Signore di cui vale la pena di trasmettere la memoria, generazione dopo generazione, fino a chi di quella storia di fede può sentire di fare parte oggi, pur nato nel XXI secolo o giunto da luoghi lontani e da altre storie, per vivere, anche la propria fede, in questo Paese.

Un nome che richiama le vicende di un piccolo popolo da cui passa un pezzo importante della storia italiana ed europea di lotta per i diritti umani fondamentali, per le libertà di coscienza e di culto; un popolo che di una terra amata, scenario di massacri, di esili e ritorni, dell’esperienza di chiusura in un ghetto, ha avvertito la responsabilità di fare una terra di accoglienza e libertà.

Un nome che parla di un evangelismo da subito laico. Laico perché ha rifiutato l’idea di un clero a cui attribuire poteri e prerogative speciali. Laico perché ha creduto in una fede che trova nelle piazze, nelle strade, nella quotidianità delle relazioni della vita comune il luogo privilegiato in cui si sperimenta la grazia di Dio e si vive la vocazione e la missione di annuncio evangelico. Laico perché libero da mediazioni e dall’asservimento ad autorità umane assolute. Laico perché mai settario. Laico perché appassionato di un impegno da cittadini nella polis, che non ha ceduto alla tentazione della commistione di poteri (civile e religioso) o di fornire, in nome di Dio, un fondamento di legittimazione a nazionalismi violenti ed escludenti.

Un nome che parla di scelte cruciali, a volte drammatiche, compiute in vari momenti all’interno di un movimento e poi di una chiesa che ha saputo discutere (forse molto più di oggi) intorno a linee diverse che si confrontavano sui temi più cruciali.

Insomma, un nome che rimanda ad un’esperienza di fede accogliente, plurale, che crede in un’unità che non pretende uniformità e non è garantita dall’obbedienza a poteri assoluti, ma fondata su un vincolo di solidarietà e collaborazione che ha bisogno di doni diversificati, di libertà di ricerca, di confronto critico, di una comunione che sappia andare oltre confini e muri che dividono e separano, perché davvero (per usare la bella espressione del preambolo delle Discipline generali dell’Ordinamento valdese) «nella carità̀ reciproca si manifesti per tutti la sola signoria di Cristo».

Un’eredità preziosa di fede, speranza e amore, fondata e alimentata da un rapporto costante, personale e comunitario, con le Scritture, dalla quale ricavare le risorse di discernimento, incoraggiamento, consapevolezza di una vocazione che servono per affrontare le enormi sfide dell’oggi, confidando nella promessa del Signore che coloro che in lui sperano «acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano» (Isaia 40, 31).

Articolo tratto da Riforma.it