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di Pawel Gajewski*

«Ama il Signore Dio tuo (...) e ama il prossimo tuo come te stesso» (Luca 10, 27): queste parole saranno il principale riferimento della prossima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il “comandamento d’amore” è inserito nel quadro di una delle più incisive parabole di Gesù, quella del buon Samaritano (Luca 10, 25-37). È un brano evangelico che suscita (e deve suscitare) vivaci dibattiti sull’impegno cristiano nel mondo, sulla diaconia, sull’amore del prossimo concepito come servizio.

I testi delle preghiere e la liturgia sonno stati elaborati nel Burkina Faso. Si tratta di un paese e di un popolo gravemente feriti. Il 30 settembre 2022 ha avuto luogo un colpo di Stato militare. I gruppi armati non statali del Burkina Faso stanno ampliando la loro influenza in tutto il Paese, anche nella capitale Ouagadougou. La situazione della sicurezza è in continuo peggioramento. In diverse regioni è stato dichiarato lo stato di emergenza e il 14 aprile 2023 il Governo ha emanato un ordine di mobilitazione generale per combattere i terroristi jihadisti. Assimilare il Burkina Faso all’uomo aggredito dai briganti è una nostra reazione naturale che ci porta a identificarci con il buon Samaritano. È giusto reagire così, auspicando che la comunità internazionale faccia la sua parte per portare la vera pace in quell’angolo poco conosciuto dell’Africa e “facendo tutto il possibile per aiutarlo” (cfr. Luca 10, 34).

Per quanto riguarda invece le chiese cristiane (nel Burkina Faso e altrove) non basta la nostra reazione naturale. Nella tensione dialettica tra natura e Grazia bisogna riconoscere la sovranità di quest’ultima. In tale prospettiva la persona ferita dovrebbe essere identificata con la Chiesa di Gesù Cristo nelle sue molteplici realizzazioni storiche. Tali realizzazioni sono opere umane e, dunque, soggette al peccato. In esse la sincera volontà di miglioramento si mescola con ambizioni, rivalità, conflitti, brame di potere. Nessuna chiesa, intesa come istituzione, può considerarsi perfetta e nessuna rappresenta pienamente l’unica, indivisa e indistruttibile Chiesa di Gesù Cristo.

Allora qual è il senso della preghiera per l’unità dei cristiani? È più facile rispondere a questa domanda in modo negativo. Lo scopo della Settimana non è quello di domandare a Dio «il ritorno di tutte le altre pecore all’ovile di Pietro, l’unico pastore», come suggeriva nel 1908 il pastore James Francis Wattson (episcopaliano statunitense). Nell’epoca postconciliare, in particolare dal 1968 in poi, tale impostazione mutò radicalmente, almeno sul piano delle dichiarazioni ufficiali. Tuttavia, ancora oggi alcune celebrazioni ecumeniche organizzate in sedi cattoliche trasmettono implicitamente il messaggio del reverendo Wattson: il vescovo cattolico (episcopus loci) al centro, rappresentanti delle altre confessioni cristiane alla sua destra e alla sua sinistra.

Ritorniamo alla domanda sul senso della preghiera per l’unità dei cristiani, ma questa volta in modo positivo. La preghiera comune è uno dei principali segni visibili dell’unità invisibile della Chiesa di Gesù Cristo. Sarebbe importante che la preghiera ecumenica si trovasse al centro della vita comunitaria di tutte le chiese cristiane. Qualche volta questo succede, il più delle volte ci accontentiamo della Settimana, detta appunto “ecumenica”.

A questo punto vorrei rievocare di nuovo la Chiesa “ferita”, identificata con la persona che giace sulla strada per Gerico. Una delle ferite più gravi del cristianesimo contemporaneo è l’impossibilità di vivere pienamente l’ospitalità alla mensa del Signore. Nel mondo questo problema – generato dalla rigidità del magistero cattolico – riguarda milioni di coppie e famiglie interconfessionali. Oggi la chiesa cattolica parla molto (anche di recente) del cosiddetto “approccio pastorale” che permetterebbe di compiere alcuni atti che non sono ancora consentiti dal Codice di diritto canonico. Sarebbe importante se, almeno in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, le autorità cattoliche volessero consentire una forma “straordinaria” di condivisione del pane e del vino. Si tratterebbe di un ulteriore segno visibile dell’invisibile unità dell’unica Chiesa di Gesù Cristo. Che questo succeda o meno, resta sempre valida l’affermazione evangelica che la guarigione delle ferite confessionali e quindi la piena manifestazione visibile dell’unità della Chiesa dipendono dalla Grazia soltanto e non dalle nostre opere.

*Coordinatore Commissione consultiva per le relazioni ecumeniche delle chiese battiste, metodiste e valdesi