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di Luciano Deodato

Franco Sommani (foto Riforma)

Nato nel 1920 e scomparso l’11 luglio scorso, Franco Sommani ha vissuto interamente il ventennio fascista e, come quelli della sua generazione, ne ha sperimentato sulla propria pelle il drammatico tracollo. Era al secondo anno di teologia quando fu chiamato alle armi e mandato a frequentare il corso allievi ufficiali e quindi assegnato al reggimento di stanza a Vercelli, dove arrivò il 5 settembre ‘43. Il 9, il giorno dopo la firma del famoso armistizio, un reparto delle SS circonda la caserma, lascia andare i soldati semplici, ma arresta tutti gli ufficiali, tra i quali anche Sommani, e li traduce in un campo d’internamento a sud di Danzica. Comincia così per lui un lungo viaggio attraverso la sofferenza. Da un primo campo, passa a un secondo, a Cestokowa, non lontano da Cracovia, poi a un altro al confine tra la Polonia e la l’Ucraina e poi a un altro ancora a sud di Stettino e poi un altro vicino a Norimberga, dove ha la sorpresa di trovare il colonnello Adolfo Rivoir a capo del servizio cucina. Ma non è finita: nella primavera del ‘45 viene trasferito in un campo vicino al confine con l’Olanda. Tutti i giorni i prigionieri vedono passare sopra le loro teste le fortezze volanti degli Alleati che, incontrastate, vanno a bombardare le città tedesche. Finché finalmente un giorno, anzi una notte, le guardie tedesche abbandonano il campo e arrivano delle truppe canadesi.

Come ci si può facilmente immaginare il ritorno a casa è quanto mai avventuroso. Sommani lo compie insieme a Dino Ciesch, suo compagno di prigionia. Attraversano villaggi e città distrutte, viaggiano su vagoni merci carichi di carbone e, alla fine, egli rientra presso la sua famiglia a Roma.

Compie il suo anno di prova a Zurigo, nel Sinodo del settembre ‘47 è consacrato e il mese dopo raggiunge la chiesa di Pachino alla quale è stato assegnato. Sono gli anni dell’ascesa della Democrazia cristiana e dell’applicazione in senso restrittivo delle leggi del ‘29-’30 sui culti ammessi. Non è un periodo facile per gli evangelici. Nel ‘52 è nominato pastore nella chiesa di Como che lascia dopo tre anni, per andare a Torre Pellice, dove rimarrà fino al ‘67. Andrà quindi a Firenze dal ‘67 al ‘75 e infine a Roma dal ‘75 fino al ‘90, anno della sua emeritazione. Ma non è finita lì, perché fino all’ultimo ha continuato a lavorare visitando famiglie disperse nella diaspora o per periodi limitati sostituendo forze pastorali, come per esempio alla chiesa battista di Civitavecchia, a Perugia e ancora altre sedi. Insomma, finché le forze glielo hanno consentito, egli ha predicato. Aveva cominciato a farlo già nei campi d’internamento con i suoi compagni di prigionia. Non aveva una Bibbia. Ma lui, come anche Giorgio Girardet, recitava a memoria versetti della Bibbia e cercava in questo modo di confortare giovani sbandati, distrutti nel fisico e nel morale, perché non perdessero, o forse trovassero, la loro dignità e umanità.

Per questo mi sono dilungato all’inizio nel menzionare le tappe del suo lungo viaggio nel mondo della disperazione. In ogni campo in cui è stato Franco ha portato la parola dell’Evangelo, il «conforto» di cui parla Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto, che il debito della sua iniquità è pagato… » (40, 1 ss.). Un messaggio che egli portava non dal di fuori, ma dall’interno di una situazione catastrofica che viveva in prima persona. Lo ha fatto con umiltà, sapendo che quella parola non era sua, e con grande fiducia poiché là dove essa è testimoniata fa vedere a chi l’ascolta «un nuovo cielo e una nuova terra» (Apoc. 21, 1).

Ha fatto parte di vari comitati e commissioni; per breve tempo è stato anche membro della Tavola valdese. Ma la cifra della sua vita a me sembra essere stata la predicazione, dal pulpito come nel colloquio personale. Ritengo che il tirocinio duro, severo, nell’universo del campo di concentramento abbia conferito alla sua predicazione – sempre profonda e semplice – il sapore del vissuto e la forza della verità. Chi è stato nello Sheol e ne è risalito, come per una resurrezione, può annunciare a piena voce l’amore e la grazia del nostro Signore.

Tratto da Riforma del 25 luglio 2014