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di Mauro Pons

«... chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà»

Il decimo capitolo dell’Evangelo di Matteo affronta il tema del discepolato cristiano: prima, egli si sofferma sull’invio dei suoi dodici apostoli in missione; poi, egli illustra gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli e le frustrazioni che tale missione comporterà per essi. L’insieme è piuttosto drammatico, perché Matteo sottolinea la forza dell’opposizione di quel contesto religioso e culturale alla predicazione dell’Evangelo di Gesù. Gli apostoli non sono accolti con curiosità, attenzione e gioia, ma, anzi, sono oggetto di persecuzioni, sofferenze, discredito e odio. L’unica risorsa, a difesa delle loro stesse vite, sarà la protezione fedele del “Padre” di Gesù, il “Padre mio che è nei cieli”!

In questo contesto narrativo, la “croce” e l’invito a seguire Gesù nella missione, che è affidata a loro (ma a noi stessi, anche se il nostro contesto è diversissimo!), ha a che fare innanzitutto con la fedeltà, il radicamento nel dono della fede, che essi (e noi) abbiamo ricevuto da Dio. Liberiamoci dall’immagine che essere cristiane e cristiani implichi necessariamente persecuzione, sofferenza e crocifissione (queste esperienze sono di altre e di altri, ad altre latitudini): per noi, l’esperienza della “croce” passa nel lasciarsi mettere in discussione nelle proprie scelte e nei propri stili di vita; rinunciare al “troppo che abbiamo”, per cercare la vita che non si perderà mai, per non lasciarci ingannare dalla vita che viviamo, quella che rischiamo di perdere in ogni momento.