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di Nicola Tedoldi

«[Nello Sheol] i prigionieri hanno pace tutti insieme, senza udir voce d'aguzzino»

Ecco il carcere come luogo di sofferenza, tale da vedere il regno dei morti come luogo di pace. La voce dell’aguzzino ha il timbro del rimorso, l’intensità della paura, l’estensione del dolore. Ma la voce dell’aguzzino, ha anche il suono delle porte che si chiudono, delle serrature che senza tregua assordano la vita dei reclusi. La voce dell’aguzzino oggi ha il suono della malvagità di coloro che dicono che per “quelli lì” bisognerebbe buttar via la chiave e che dovrebbero marcire in galera. Suoni insopportabili che lacerano coscienze lacerate, suoni violenti, suoni che rendono disumani più di quanto possa disumanizzare il crimine commesso. E quando quei suoni vengono dall’esterno, sono come coltellate a quell’umanità che a tutti è stata data dall’unico Creatore.

Forse per questo, forse anche nel rispetto di quell’umanità ridotta a fantasma, ma pur sempre viva in ogni essere vivente, la morte sembra rappresentare per molti prigionieri il luogo della pace.

Nell’ultimo anno 2019, in Italia sono stati 53 i carcerati che hanno trovato la pace dandosi la morte. Un’età media di 41 anni: 91 anni il più anziano, Filippo, 20 anni il più giovane, italiano, di cui nemmeno si è saputo il nome. Tutti, tranne uno, suicidatisi con il consueto metodo dell’impiccagione. E questo perché la voce dell’aguzzino è stata più forte del valore che la nostra società ha dato alla loro vita. Sia la parola del libro di Giobbe, un monito per le nostre coscienze e un invito ad una profonda riflessione sul senso della dignità di ogni vita umana.