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di Nicola Tedoldi

«Così dice il re: “Rinchiudete costui in prigione, mettetelo a pane e acqua finché io torni sano e salvo”».

Ecco il carcere nel suo essere strumento di oppressione da parte dei potenti. Questo versetto è il triste epilogo del dialogo tra Acab, re d’Israele, e Micaia, profeta conosciuto dal re come colui che «non predice mai nulla di buono». Anche in questo caso Micaia predice la sventura e il re chiede che venga messo in prigione, a pane ed acqua, fino al suo ritorno.

A prima vista ci colpisce questa restrizione alimentare che, anche ai nostri giorni, suona come una severa minaccia. Ma la cosa più tremenda di questa carcerazione forzata è data dal fatto che essa è comminata ad una persona colpevole solo di avere profetizzato una disgrazia e soprattutto dal fatto che se tale profezia si fosse avverata, quella detenzione si sarebbe trasformata in una pena senza fine in condizioni disumane. Da detenzione preventiva ad ergastolo: tutto in regime di restrizione e senza possibilità di alcuna difesa. Il potente si trasforma in aguzzino con un messaggio che suona ben chiaro: prega il Signore di farmi vivere, altrimenti la tua sorte sarà una vita di stenti, dimenticato da tutti.

E se la ben nota malvagità di Acab continua a sorprenderci, ancor di più nel nostro tempo ci fa orrore sapere che in molte carceri del mondo, e purtroppo anche in qualche caso nel nostro paese, le misure restrittive sono ancora utilizzate, in particolar modo per poter ottenere informazioni dai prigionieri. E non solo restrizioni alimentari a pane ed acqua, ma vera e propria tortura contraria a quel “senso di umanità” di cui cui parla l’articolo 27 della nostra Costituzione. Insomma, la malvagità di Acab è ancora tristemente attuale.