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di Paolo Ribet

«Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre». 

Tutto l’anno liturgico potrebbe essere inteso come un viaggio: un viaggio alla scoperta sempre nuova del nostro rapporto con Dio e verso la maturazione della nostra fede. Lo è in modo particolare nel tempo dell’Avvento, quando i nostri sguardi sono rivolti a ciò che sta per avvenire: alla nascita di Gesù. In questo senso il viaggio di Abramo ci accompagna nella nostra avventura personale. L’ordine ricevuto dal patriarca inverte la logica degli affetti. La Genesi vuole dirci che non si tratta di una migrazione legata agli spazi; la dimensione del viaggio va infatti piuttosto assunta come condizione umana. Si è chiamati a rompere legami sempre più ravvicinati: patria, città, famiglia. Il racconto del cammino tortuoso di Abramo non è solo descrizione dei suoi vari spostamenti, ma è metafora della vita: un andare verso l’incognito, seguendo una vocazione. 

Per Calvino è questa «la regola che ci è comandata per formare tutta la nostra vita: che noi non intraprendiamo nulla di cui Dio non sia l’autore… La nostra vita sarà ben regolata e ordinata, quando dipenderemo dalla bocca di Dio e non intraprenderemo nulla se non per la sua Parola». 

In questa luce si può evocare l’interpretazione che, giocando su una possibilità linguistica consentita dall’ebraico, intende l’espressione «Lekh lekhà» come se si dicesse «vai a te stesso».  Il nostro vero essere è avanti a noi, lo si può raggiungere solo se si cammina. Per ritrovare se stessi non ci si deve rivolgere a radici identitarie costituite dalla casa, dalla parentela, dalla patria; al contrario, occorre uscire e prestare ascolto a una voce che chiama dall’esterno.