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di Eleonora Natoli

«A te darò la vita come bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai.»

Una promessa, un’apertura al futuro che YHWH, per bocca del profeta Geremia, rivolge allo scriba Baruc. Geremia e il suo segretario Baruc non volendo ritrattare una profezia ritenuta falsa, attirano su di loro l’odio del re e del popolo: devono fuggire, devono lasciare la loro terra. La vita di Baruc, poi, si trasforma in  una fuga in cerca di quella salvezza che Dio gli promette e in cui lui confida.

Questa storia noi la conosciamo bene, la leggiamo sui giornali, ne vediamo le immagini drammatiche trasmesse dai nostri televisori. Assistiamo a migrazioni di popoli che affrontano pericoli ignoti per sfuggire a pericoli certi nel loro paese d’origine. Anche loro, come Baruc, portano con sé la propria storia, forse non scritta su di un rotolo ma incisa nelle loro anime, evidente nei loro corpi. Queste persone, trascinate e travolte dagli eventi, narrano, con la loro vita, la storia di una fede, consapevole o meno, che si fa fortemente speranza. “A te darò la vita come bottino”: avere in dono, dopo la battaglia, non le ricchezze del nemico ma qualcosa che già ci appartiene: la vita, è come rinascere. E’ questo il racconto mai narrato che annega nei nostri mari insieme alla nostra incapacità di porci in ascolto. E’ sotto questo segno, il segno di una promessa sempre viva, che invece i destini di noi tutti, e in primo luogo di chi soffre, si intrecciano e desiderano attuarsi. Se imparassimo ad ascoltare le storie dei migranti riscopriremmo quel sentimento di speranza che abbiamo dimenticato.