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di Marco Di Pasquale

«Ma per grazia di Dio sono quello che sono; e la grazia sua verso di me non è stata vana, anzi, ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Sia dunque io o siano loro, così noi predichiamo, e così voi avete creduto»

«Io sono il Marchese di Forlipopoli.» «Ed io sono il Conte d'Albafiorita.» «Sì Conte. Contea comprata.» «Io ho comprato la Contea, quando voi avete venduto il Marchesato.» «Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.» Il ridicolo Marchese di Forlipopoli, goffo quanto squattrinato personaggio della commedia “La locandiera”, di Carlo Goldoni, è solito sbarazzarsi dei dubbi avanzati sulla nobiltà delle sue origini con un’espressione rimasta proverbiale: «Io son chi sono!». Questa espressione è nella sua bocca tanto più ridicola in quanto in essa riecheggia addirittura la parola che Dio, sul monte Oreb, rivolge a Mosè, quando questi gli domanda chiarimenti sulla sua identità. Questa parola suona appunto: «Io sono chi sono».

Paolo, nel rivolgersi qui ai Corinzi, sembra muoversi sulla stessa linea del marchese goldoniano. Pare avanzare anch’egli pretese che, con tutto il rispetto per la santità del personaggio, potremmo definire abnormi. Vi è però qualche differenza tra questa risposta di Paolo e quella di goldoniana memoria. Paolo, nel versetto precedente, aveva affermato di essere il minimo degli apostoli, e, per dissipare ogni dubbio, aveva aggiunto di essere indegno di questo appellativo, per aver in passato perseguitato la chiesa. Ora però conclude: «Ma per grazia di Dio sono quello che sono». È apostolo non perché ne sia degno – infatti ne è indegno – ma per grazia di Dio.

Quest’affermazione denota una posizione molto diversa da quella di chi è centrato su se stesso: Paolo non fonda la propria autorevolezza sulle sue origini o sulle sue qualità personali, e neanche si fa forte della qualifica di apostolo, come se essa trasformasse la sua persona in un’autorità infallibile: anzi, relativizza e sminuisce tutto ciò. La sola cosa che conta, che dà autorità al suo discorso è la grazia di Dio, cioè qualcosa che non gli appartiene e che non potrà mai valere come qualifica davanti agli altri.

La grazia di Dio è e resta di Dio, anche quando egli ce ne fa partecipi. Tuttavia, essa ci rende testimoni della sua Parola, ci invia a renderne testimonianza (questo significa appunto “apostolo”: inviato). E la vera questione qui, per Paolo, è la Parola di Dio: allorché viene messa in discussione non la sua persona, che non conta nulla, ma la sua testimonianza della Parola di Dio – l’annuncio dell’evangelo – allora egli fa valere la grazia di Dio a favore dell’evangelo, concludendo: «così noi predichiamo, e così voi avete creduto».

Lutero, di cui un questi giorni ricordiamo il gesto riformatore della chiesa, parlava del peccatore come di un uomo incurvato su se stesso, che invoca origini, titoli, possedimenti o meriti personali per farsi valere – come faceva appunto il Marchese di Forlipopoli. La grazia di Dio ci decentra da noi stessi, ci fa riprendere la posizione eretta e ci permette di camminare, spostando fuori di noi il nostro centro, chiamandoci con la sua Parola e inviandoci a testimoniarla. E quando questo accade, non siamo più noi ad affermare chi siamo, ma è Dio ad affermare se stesso – e noi con lui, testimoni del suo evangelo.