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Fine dell'era costantiniana

L’avanzare della modernità negli ultimi tre secoli ha posto fine alla società europea che si può definire col termine “cristianità”. È il caso di precisare che cristianità non si identifica né con cristianesimo né con chiesa. Il primo è tuttora una delle espressioni religiose più diffuse sull’intero pianeta, come tale può essere accolto, discusso o rifiutato in base a valutazioni di ordine religioso, culturale, filosofico, ma mantiene la sua identità e la sua valenza; la seconda è la forma storica organizzata che i cristiani hanno dato e danno alla propria comunità di fede: può modificare le sue forme, ampliarsi o ridursi, ma è destinata a permanere. Quello che è soggetto a crisi, ed ha concluso il suo ciclo storico, è l’impianto culturale della società cristiana occidentale.
Dicendo concluso esprimiamo una valutazione in termini forse più hegeliani che propriamente storiografici perché la secolarizzazione ha posto fine alla cristianità nel senso che l’ha relegata fra le forme storiche del passato ma non può cancellarne l’immagine, come ha mostrato il dibattito sulle radici cristiane dell’Europa.

Questo processo storico non del tutto concluso, che abbiamo definito facendo ricorso a immagini (“avanzata” e “tramonto”), ha naturalmente segnato profondamente la vita di tutte le chiese in due ambiti: nei rapporti con la società in via di secolarizzazione e nelle relazioni interconfessionali. Quello che sino al XVIII secolo era stato il confronto-scontro fra due cristianità, la cattolico romana e la protestante, è ora il confronto fra il mondo secolare e le chiese. Da bipolare il raffronto diventa tripolare, ogni chiesa ha ora due interlocutori: l’altra confessione e la società laica; deve confrontarsi con loro e ridefinirsi di conseguenza.

Prima di avviare la nostra indagine sul rapporto che i protestanti hanno stabilito, nel corso di questi secoli, con la modernità, è il caso di dare uno sguardo d’insieme a questo complesso di rapporti: chiese, società, cristianità. Nella triangolazione di cui si è detto le due confessioni cristiane si sono infatti poste di fronte al fenomeno secolare in modi diversi, sulla base della loro teologia, dando una diversa valutazione della cristianità.

Il cattolicesimo ha visto nella nascita di una cultura laica un attentato non solo alla sua sovranità ma alla fede stessa, e l’apprensione di fronte a questa minaccia lo ha condotto su posizioni di chiusura pregiudiziale, che si sono accentuate nel tempo fino alla condanna radicale di ogni espressione di modernità con il Sillabo. Una revisione parziale di tale atteggiamento si avrà solo con il Vaticano II e la nuova tesi del necessario “aggiornamento” della chiesa.

Il protestantesimo ebbe invece, nel suo complesso, una posizione molto meno rigida. Anzi in molti suoi ambienti le istanze critiche e innovative della società: responsabilità del singolo, libertà di indagine, relativizzarsi dell’istituzione ecclesiastica, erano viste come la logica prosecuzione della Riforma stessa.

Il programma culturale delle due famiglie confessionali nei confronti di questa sfida del secolare si potrebbe esprimere in questi termini: salvaguardare la chiesa, società perfetta, nella tempesta della laicità, il cattolico; vivere la fede in un mondo secolare, il protestante.
Questo diverso atteggiamento non è dettato nel protestantesimo da calcolo politico, da adeguamento alla modernità, dal rifiuto della tradizione e nel cattolicesimo da spirito reazionario, brama di potere, oscurantismo ma in entrambi i casi trae origine da fattori teologici.

Anzitutto dai caratteri delle rispettive ecclesiologie; in un caso centralizzata, facente capo a Roma ed al magistero papale, nell’altro plurale e diversificata in un insieme di realtà indipendenti molto autonome. Il cattolicesimo permane realtà unitaria, che si colloca al di sopra delle vicende storiche, garante dell’identità del continente, sintesi compiuta del profetismo biblico e della ratio latina. Il protestantesimo ha invece intrecciato la sua vicenda con quelle delle realtà nazionali, è stato in molti casi l’anima della nazione, in altri ha inventato la religione civile, traducendo in categorie di responsabilità sociale la vocazione cristiana.

Di conseguenza risulta radicalmente diversa l’ottica con cui le due confessioni hanno considerato e considerano la Societas Christiana, la cristianità. Mentre il cattolicesimo ne rivendica tuttora la validità, sia pure con necessari adattamenti, il protestantesimo la considera superata del tutto per quanto riguarda sia la società che la chiesa e la fede.

Chi è chiamato a reggere la polis, la società, nell’ottica dei riformatori, il magistrato, risponde del proprio operato a Dio non alla chiesa, e di conseguenza è autonomo nelle sue scelte. Per quanto riguarda la chiesa, il protestante non la vede come istituto di salvezza, gestore della grazia, ma semplicemente come la comunità dei fedeli, che attende il Regno. E definisce “fede” non “religione” il proprio atteggiamento di fronte a Dio, né accettazione del dogma né obbedienza alle norme ecclesiali, ma relazione con l’Assoluto divino.

Di conseguenza il protestantesimo moderno, in tutte le sue espressioni, dal pietismo al liberalismo, alla teologia della crisi, porrà al centro della riflessione non il dogma, cioè la metafisica, ma due problemi: il rapporto religione-rivelazione e l’analisi del testo biblico, cioè la storia e l’ermeneutica. Inevitabilmente questo condurrà i teologi protestanti a discutere, dialogare, polemizzare con le filosofie che nasceranno in ambito secolare, li condurrà cioè a fare cultura.


Tratto da I Protestanti, una cultura, di Giorgio Tourn, Torino, Claudiana, 2013