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Uno scambio epistolare sull’uso dei fondi dell’Otto per mille. Eugenio Bernardini e Marco Tarquinio si confrontano su due visioni del rapporto tra chiesa e società.

Lettera del moderatore Eugenio Bernardini (versione integrale)

Caro Direttore,

sento il bisogno di intervenire nel merito della risposta che il 7 maggio lei ha dato a un lettore di Avvenire che esprimeva il proprio dissenso nei confronti di uno slogan che da sempre caratterizza la campagna per l'Otto per mille a favore delle chiese metodiste e valdesi: "Non un solo euro sarà usato per il culto”. 

A questa frase il lettore oppone il fatto che il cristiano non si debba vergognare di impegnarsi "nelle liturgie e nelle devozioni tradizionali e popolari".  A questa critica, replico che il cristiano ha certamente il diritto di praticare le sue tradizioni ma, proprio perché attengono alla sua fede, dovrebbe farlo con i soldi suoi e della sua Chiesa e non con quelli che lo Stato mette a disposizione delle confessioni religiose prendendoli dalla fiscalità generale di una collettività che comprende (oggi sempre di più) credenti, non credenti e diversamente credenti.

Lei mostra di condividere il parere del lettore affermando che la frase della nostra campagna promozionale "non le suona proprio" e che essa finisce per "mettere in competizione l'amore per Dio con l'amore per i fratelli, e soprattutto per i poveri". Schematizzando, potrei facilmente replicare che Dio non si mette mai contro i poveri e certo non se la prende con noi miseri peccatori perché utilizziamo dei fondi per la carità e l'azione sociale invece che per il culto. Ma capisco che la sua frase ad effetto risponde a esigenze di titolazione e quindi semplifica un concetto più complesso.

Detto questo mi permetta di chiarire il punto di vista di noi cristiani evangelici valdesi e metodisti per i quali la questione dell'Otto per mille va posta in termini "laici": nella nostre comprensione, infatti, i fondi che le confessioni religiose ricevono grazie al meccanismo dell'Otto per mille sottraendoli  al bilancio - ma non al controllo - dello Stato, sono il frutto di un atto di fiducia nei confronti di ciò che le comunità di fede fanno per il bene comune. Proprio perché frutto di una imposta dello Stato, in altre parole, devono avere una funzione pubblica,  finalizzata a soddisfare esigenze e bisogni sociali di ordine sociale generale e non particolari esigenze confessionali.

Ma su un piano più strettamente religioso e spirituale avanziamo una seconda e per noi ancora più impegnativa considerazione: il culto e il servizio alla Chiesa sono un compito primario del credente che ciascuno di noi è tenuto a osservare "in Spirito  e verità" (Gv. 4,23) e quindi nella libertà e nella responsabilità che deriva dalla fede. Il sostegno materiale alla propria Chiesa è insomma un dovere al quale il credente non si sottrae ma che  rivendica come il privilegio di onorare Dio con i mezzi che ha a disposizione. 

È questo concetto che proviamo a esprimere con lo slogan che accompagna la mostra campagna, con il quale intendiamo dire che con i fondi dell'Otto per mille finanziamo, per esempio, i corridoi umanitari con i quali accompagniamo in sicurezza in Italia  e accogliamo centinaia di profughi stremati e vulnerabili, ma che i nostri pastori, le nostre campagne di evangelizzazione e le nostre chiese ce li paghiamo con i contributi dei nostri membri di chiesa. E che siamo evangelicamente convinti che debba essere questo il nostro modo di esprimere la lode al Signore. 

Lo diciamo senza polemica ma in quello spirito di riscoperta fraternità ecumenica che sta caratterizzando le relazioni tra le nostre Chiese.

Se poi un giorno volessimo discutere insieme e più in generale di come sia possibile, nell’Italia e nell’Europa di oggi, trovare le risorse necessarie per le Chiese per diffondere il messaggio di salvezza di Gesù Cristo, penso che potremmo fare riferimento a modelli già sperimentati e credo migliori di quello che abbiamo in Italia, come quello tedesco per esempio.

Con gratitudine per l'attenzione che vorrà dare a queste mie considerazioni, la saluto fraternamente.pastore Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola valdese

Risposta del direttore di Avvenire

Apprezzo molto questa sua garbata e profonda replica, caro e reverendo pastore Bernardini. E mi scuso per aver dovuto inchinarmi allo spazio di questa pagina, riducendo un po’ le sue parole e ancor più la mia controreplica. Le sono grato perché vedo che, pur nella differenza di valutazioni, lei ha ben compreso che il titolo della risposta che avevo dato a un lettore emiliano («L’otto per mille e le “spese di culto”: il rischio di mettere i poveri contro Dio») ha reso in forma sintetica – e, aggiungo, problematica – un concetto più complesso e, infatti, accompagnato da distese argomentazioni. Per quel che vale, mi sento di ribadirlo, con mite convinzione e sincero rispetto per i fratelli valdesi. Nella visione a cui ho cercato di dare voce da semplice cattolico quale sono – e che è frutto anche nel mio caso di una concreta esperienza di Chiesa – la solidarietà verso i fratelli più poveri e fragili – la «carne di Cristo» – è atto di culto a Dio. Ecco perché non riesco a essere d’accordo con una comunicazione mediatica che separa, e di fatto contrappone, carità e culto. Vivo la nostra Messa (e penso, per la minima conoscenza che ne ho, il culto valdese e metodista) come Parola che si fa carne, appunto, e mensa comune; lo so luogo della presenza di Gesù nel segno della Croce, che è relazione verticale con Dio e apertura orizzontale, inesorabile, ai fratelli. Chiese, parrocchie, strutture diocesane non riesco neanche a concepirle come luoghi dove si soddisfano esclusivamente «particolari esigenze confessionali», ma come cantieri di fede, di speranza e di carità. Questo, da secoli, tra contraddizione e santità, continuano a essere dentro le comunità civili del nostro Paese e al servizio delle persone che le compongono.

Ripeto tutto questo in dialogo con lei, gentile pastore Bernardini, non per idea astratta o per polemica, ma – insisto – per consapevolezza maturata attraverso una concreta esperienza di Chiesa. La stessa che non mi permette di considerare i sacerdoti cattolici come gestori di una “funzione privata” e da sostenere, per così dire, privatamente: il cristianesimo non è fatto privato e privatizzabile e la Chiesa di Cristo – che pure «non è una Ong», come ci ricorda spesso papa Francesco – non fa del sagrato o, ancor prima, della sagrestia un confine, ma anche da lì irradia un’azione di bene che evangelicamente non fa e non può fare distinzioni confessionali e che non mi è mai parso decisivo valutare col metro della «laicità» che, pure, su altri piani apprezzo. Credo, per esempio, che a proposito dell’8 per mille sia utile una laica trasparenza nella destinazione dei fondi democraticamente assegnati da noi cittadini nell’annuale “votazione” in occasione della dichiarazione dei redditi. E sono lieto che la mia Chiesa cattolica la persegua, come la Chiesa valdese.

Sono questi i motivi per cui non «mi suona proprio» un messaggio sintetico e a effetto (gli slogan da spot, del resto, somigliano ai titoli di giornale…) come quello di cui discutiamo. Detto questo, sono grato a Dio di vivere una stagione di «riscoperta fraternità ecumenica», per usare la sua espressione, e di veder nascere belle ed efficaci iniziative comuni come quella che valdesi, evangelici e cattolici (la Comunità di Sant’Egidio, che ha messo in rete anche diocesi di tutta Italia oltre alla Comunità Papa Giovanni XXIII) conducono assieme per aprire «corridoi umanitari» a servizio dei profughi dalla guerra e dall’ingiustizia. Quando si incontra Cristo lì dove ci ha dato appuntamento, ci si ritrova. Ricambio cordialmente il suo fraterno saluto.

Tratto da “Avvenire” del 28 giugno 2016