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di Eric Noffke, professore di Nuovo Testamento alla Facoltà valdese di teologia

Sovente capita di usare il principio teologico del Sola Scriptura come se fosse una clava. Questo va certo bene quando serve per fare a pezzi gli idoli che si pongono tra noi e la comprensione della volontà di Dio, ma come ogni arma bisogna fare attenzione a non impiegarla in maniera impropria. Un errore comune nel mondo protestante, infatti, è quello di pensare  che la Scrittura sia a nostra disposizione immediatamente, incondizionatamente, quasi fosse ai nostri ordini. Al contrario, la Scrittura reclama di essere letta, studiata, amata ogni giorno, pretende di porsi al di fuori di noi, per giudicare prima di tutto noi stessi che intendiamo, invece, usarla contro gli altri. Non è mai acquisita una volta per tutte, anzi! Anche per questo è sempre importante vivere la lettura e lo studio della Scrittura nella dimensione della preghiera.

Facciamo un esempio per chiarire. Traducendo la Bibbia della Riforma, di cui il Nuovo Testamento sarà presentato proprio in ottobre 2017, il comitato ha dovuto superare numerose sfide, perché alcuni passi fondamentali semplicemente non vogliono saperne di piegarsi al nostro desiderio di una comprensione immediata nella lingua italiana. Uno di questi è la famosa espressione “fede in Gesù Cristo”, in greco pistis Iesou Christou (ad esempio in Rom. 3,22). Noi protestanti ne abbiamo fatto un cavallo di battaglia, e sovente consideriamo questa traduzione come scontata, l’unica possibile. Invece non è così.

A più riprese studiosi di diversa provenienza hanno sollevato la possibilità di un’altra traduzione: “fedeltà di Gesù Cristo”, grammaticalmente non solo possibile, ma anche suggerita dal fatto che il genitivo “Iesou Christou” (di Gesù Cristo) farebbe pensare più ad un complemento di specificazione che ad un complemento di limitazione. È il caso, ad esempio, della studiosa ebrea americana Pamela Eisenbaum, la quale utilizza questa traduzione come uno degli argomenti principali della sua tesi, per cui Paolo non avrebbe mai abbandonato la visione di una salvezza anche per opere: con il sacrificio di se stesso sulla croce, Gesù avrebbe garantito ai Gentili il perdono divino ed aperto loro una via alla salvezza. Proprio come Dio aveva eletto il popolo d’Israele, donandogli la Legge per poter restare in esso, così in virtù della fedeltà di Gesù ha accolto i pagani. In questo modo Paolo rivela di non essere mai uscito dal giudaismo, le cui premesse teologiche avrebbe visto realizzarsi in Gesù. Non per nulla il titolo del suo libro è: Paolo non era un cristiano (Pamela Eisenbaum, Paul Was Not a Christian, HarperCollins, New York 2009).

Che concordiamo oppure no, tesi come questa ci insegnano a non dare nulla per scontato quando leggiamo la Bibbia, a non adagiarci sulla tradizione a cui siamo abituati o sul sentito dire. Per quanto, personalmente, continui a pensare che l’interpretazione che Lutero fece già a suo tempo sia quella più corretta, e che qui Paolo parla della fede del credente in Gesù Cristo (cioè, Gesù è l’oggetto di quella fede, non il soggetto), letture alternative come quella della Eisenbaum, ci ricordano che per Paolo il termine “pistis” (fede) non significa confessare una dottrina, ma avere una fiducia totale nelle promesse di Dio che vediamo realizzate in Cristo. E, come ci insegna Lutero, chi ha fiducia nell’amore di Dio, come può non rispondere con il suo amore?  Amare Dio significa anche amare la sua Parola, farne l’unico tramite della conoscenza dell’evangelo, l’unica autorità per il credente e per la Chiesa. Sola Scriptura, insomma, prima che una “clava teologica” è richiamo imperituro all’amore di Dio manifestato in Gesù Cristo.