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Le guardie svizzere sono tese come tutti i servizi di sicurezza dei Grandi di questo mondo. Se non mostri subito il biglietto di invito speciale, ti guardano con impazienza e sospetto, anche se sei una mite signora orientale un po’ confusa per la situazione e che cerca affannosamente nella borsa il suo pass. Se poi, incuriosito, ti allontani un po’ dal gruppo e ti avvicini a una scala che introduce ai piani del Palazzo Apostolico, una guardia ti scatta dietro urlando di tornare indietro. Non metto in dubbio le ragioni della sicurezza, specie per i tanti fuori di testa con psicosi religiose che popolano il pianeta, ma certo il Vaticano visto dall’interno conferma quello che appare da fuori: un luogo di potere che incute più timore che rispetto, nonostante lo sforzo – penso sincero – di papa Francesco di renderlo più “umano”, più “normale”.

L’impressione di essere in uno dei luoghi di potere del mondo è confermato dalla lunga sequela di scalinate che salgo con gli altri circa 400 “leader religiosi di tutto il mondo” che la Comunità di Sant’Egidio ha convocato a Roma per sostenere le ragioni del dialogo e della pace. Scambio una battuta col mio vicino casuale di quel momento sul significato simbolico di quella ascesa come “preparazione al grande incontro”. Attraversiamo corridoi e sale sontuosamente affrescate e tappezzate – sempre sotto l’attenta vigilanza delle guardie svizzere – e noto molte grandi finestre con grosse sbarre di protezione: serviranno solo a impedire a chi è fuori di entrare o anche il contrario?

Ma quando entriamo nell’ancora più sontuoso Salone di Clemente VIII e ascoltiamo prima Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e già ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione del Governo Monti, che sottolinea come il dialogo tra le religioni sia la più efficace base per la comprensione e la pace tra i popoli, e poi la risposta del papa, che enfatizza come non ci possa essere alcuna giustificazione religiosa per la violenza, ritorniamo a quell’atmosfera di fraternità e condivisione che relativizza il contesto come un luogo che nel passato è stato così voluto, in spregio alla povertà dei popoli, proprio per competere mondanamente con i più Grandi dei Grandi per dimostrare di essere il Primo, e che oggi quell’uomo vestito di bianco, che si è scelto un nome così impegnativo – Francesco – dichiara ripetutamente di voler cambiare già abitandolo in modo diverso.

Lo osservo da lontano nel grande salone, con le sue famose scarpe nere (dovrebbero essere bianche!) che contrastano l’omogeneità del bianco di quell’abito che compete solo a lui. Accanto ha il famoso ed elegantissimo padre Georg Gänswein (ora monsignore), già segretario di papa Ratzinger, e poco più in là cinque cardinali con i loro preziosi abiti color porpora. Bergoglio appare stanco – si è fatto attendere un po’ per il protrarsi della sua prima riunione con la Commissione da lui nominata per la riforma della Curia vaticana – ma il suo discorso è chiaro, aperto, per nulla formale, pienamente condivisibile. Poi, il personale di servizio e gli amici di Sant’Egidio predispongono la fila di coloro che potranno scambiare personalmente due parole con il papa: una rappresentanza veramente mondiale e ufficiale delle fedi e delle religioni del mondo.

Ho avuto la conferma di potermi avvicinare al papa solo quando, entrato nel salone, sono stato fatto sedere nelle due file dei “prescelti”. Penso a che cosa dirgli nei pochi secondi che avrò a disposizione e comunque decido di parlargli in spagnolo, come gesto di cortesia. Quando sono davanti a lui, Andrea Riccardi mi fa segno di presentarmi da solo, così gli accenno che la nostra chiesa italiana ha anche comunità e pastori a Buenos Aires e nel Rio de la Plata. Bergoglio, stringendomi le mani, fa un piccolo movimento di sorpresa con la testa e mi dice che ricorda un pastore valdese, un suo buon amico fraterno, che ora non è più con noi; gli rispondo che sono stato messo al corrente di quella conoscenza e mi congedo con la frase “che Dio benedica il suo ministero”, una frase tipica di saluto tra cristiani latinoamericani. Il “buon amico fraterno” ricordato dal papa era Norberto Bertón, pastore e professore di teologia. Negli ultimi anni della sua vita, anziano e non più autosufficiente, Bertón fu accolto dall’allora vescovo Bergoglio in una casa per sacerdoti anziani, dove poi morì nel 2010.

Uscendo dal salone e dal Palazzo Apostolico con un rappresentante della Comunità di Sant’Egidio, scambio alcuni impressioni sul nuovo papa, impressioni prudentemente positive. Per i cattolici alla Sant’Egidio – progressisti, impegnati molto concretamente con gli esclusi e Italia e nel mondo, di profonda spiritualità, con un amore profondo per la Scrittura – Bergoglio corrisponde al massimo delle aspettative di cambiamento dall’interno del cattolicesimo e dal suo centro mondiale. Un cambiamento che metta al centro quel cattolicesimo che esiste già ma che oggi è ancora minoritario, alla Carlo Maria Martini: dal volto umano e misericordioso, aperto alla cultura moderna e a un rispettoso dialogo ecumenico e interreligioso, sobrio e solidale, al servizio dei poveri e degli esclusi, che preferisca – sì, preferisca, al momento è difficile aspettarsi di più – la Bibbia alla Tradizione, Gesù a Maria. Insomma, quel cattolicesimo che è già nostro compagno di strada in tanti luoghi d’Italia e del mondo.

Eugenio Bernardini

4 ottobre 2013