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di Giuseppe Platone

«Venga il tuo regno» (Luca 11,2)

Un giorno uno dei discepoli di Gesù gli chiese: «insegnaci a pregare». Vedevano che Gesù pregava spesso, magari in disparte. Sapevano che Giovanni Battista aveva trasmesso ai suoi la disciplina del digiuno e della preghiera. I rabbini insegnavano preghiere per determinate circostanze. Insomma c’era modo e modo di pregare. Gesù risponde alla richiesta con la preghiera del Padre Nostro, che in Luca incontriamo in forma semplificata rispetto alla versione di Matteo.

Essa si apre, dopo il riconoscimento della sovranità di Dio («sia santificato il tuo nome») con un invito all’attesa: «venga il tuo regno». Percepisco questa invocazione iniziale come il potente motore dell’Evangelo, ma potremmo dire dell’intera Bibbia, percorsa da un forte senso di attesa. Si comincia con il viaggio verso la terra promessa per incontrare, nel corso delle narrazioni, immagini straordinarie del nuovo mondo di Dio. Si pensi all’immagine messianica di Isaia (65,17-25), in cui Dio dice: «Poiché, ecco, io creo de' nuovi cieli e una nuova terra; quivi non si udran più voci di pianto né gridi d’angoscia; non vi sarà più, in avvenire, bimbo nato per pochi giorni, né vecchio che non compia il numero de' suoi anni... ». O la visione che incontriamo nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse: «vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non era più» (Apocalisse 21, 1), sino all’ultima parola che chiude tutta la Scrittura: «Vieni Signor Gesù». I racconti biblici, la predicazione di Gesù, gli scritti apostolici sono attraversati dall’attesa che giunga il mondo nuovo di Dio.

E noi che cosa attendiamo? Di vivere (per esempio durante il culto) una fuga, pur breve, dalla realtà spesso amara e contraddittoria? Nel corso della storia filosofi e teologi sono saliti su pulpiti diversi per indicare un mondo o una città ideale. C’è tutta una storia dell’utopia, che parte da lontano. Dall’Aeropago di Atene si snoda lungo i secoli proponendo, di volta in volta, luoghi ideali: dalla Città di Dio all’isola di Robinson Crusoe. Solo due esempi di un elenco infinito. Storicamente l’attesa del compimento di un luogo ideale si è sovente trasformata in ideologia, rivelatasi, a sua volta, un micidiale mix di forze distruttrici, tese a omologare pensieri e comportamenti. Il regno che Cristo annuncia è rubricabile nell’elenco delle utopie illusorie che la storia ha visto naufragare ? La differenza sta in chi propone.

Con Cristo non siamo più noi che c’inventiamo l’ennesima utopia: questa volta infatti il progetto è nelle mani di Dio. Se infatti si guarda al futuro nella prospettiva di ciò che Dio ha già fatto per noi, ecco che l’utopia diventa realtà. Se lo sguardo è rivolto alle trasformazioni che Dio ha operato nel corso della storia non solo ieri, ma oggi, l’attesa non implode ma è rigenerata dalla speranza che Dio agisca. Proprio perché ha agito ieri. Non si tratta solo di sognare qualcosa al di là del quotidiano, ma di credere possibile che Dio crei un mondo nuovo e che lo voglia realizzare con noi, non contro di noi. Dunque agire, non fuggire. Guardare al futuro con speranza senza cancellare il passato in cui altre generazioni hanno vissuto attendendo di conoscere e condividere il progetto di Dio per l’umanità.

La dimensione comunitaria del culto c’invita a vivere l’attesa che Dio ci parli come ha parlato nel passato. In fondo noi non attendiamo altro che questo evento decisivo il quale ci apre al suo regno. E quando ciò accade il culto diventa il luogo di un attesa fruttuosa, concreta. Che Dio, in Cristo, ci indichi come essere, non dico costruttori, ma almeno testimoni del suo regno di amore, di giustizia, di pace e misericordia.