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di Giuseppe Platone

«Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri» (Filippesi 2,3-4)

Ho partecipato recentemente negli studi Rai dove si produce la rubrica Protestantesimo a un breve, intenso confronto intergenerazionale sulla figura del pastore o della pastora. Da un lato un pastore emerito (il sottoscritto) e dall’altra una giovane (brillante) studentessa, laureanda in teologia alla Facoltà valdese, Angelita Tomaselli che è anche presidente dell’Ecumenical Youth Council in Europe. Le domande erano preordinate ma, stimolati dalla giornalista Catia Barone, la conversazione è andata oltre la scaletta. Parlare del pastorato; della vocazione; della fede in Cristo; della passione per la predicazione e la testimonianza; di ciò che si è fatto e di ciò che si vuol fare... insomma, un argomento senza fine. Le nostre riflessioni, che muovevano da due diverse sponde generazionali, evidenziavano somiglianze (la passione per lo studio della Bibbia e la predicazione, il piacere di condividere momenti di vita comunitaria, il lavoro in équipe…) ma anche differenze.

La giovane teologa ha sottolineato la questione dei diritti umani troppo spesso calpestati, la necessità di migliorare la comunicazione dentro e tra le chiese e la società. Poi, fuori copione, l’intervistatrice mi pone la seguente domanda: “Dopo tanti anni di pastorato c’è un testo biblico che le offre la cifra della sua esperienza?”. Ho così proposto questa parola di Paolo ai Filippesi che ora rilancio anche ai lettori. L’ho indicata non tanto come programma di ciò che ho tentato di svolgere nella mia vita pastorale quanto come sfida sempre aperta e come orizzonte dell’attività del lavoro nelle chiese.

Poeticamente testimoniata in questa pagina biblica, la spoliazione di Cristo, che rinuncia alla propria divinità per diventare simile a noi, è un abbassamento in cui ci ritroviamo coinvolti. Si tratta di lavorare per l’unità della comunità, accogliendo l’altro diverso da te, facendo un passo indietro perché l’altro possa esprimersi compiutamente. Pensiamo alla forza dirompente di questa affermazione, annunciata nella società romana di allora, così netta nella sua distinzione in classi a cominciare da quella tra padroni e schiavi.

La «vanagloria» è il contrario del passo indietro che Paolo ci indica: è il continuo sgomitare per imporsi agli altri, per essere sempre al centro. Un atteggiamento che purtroppo ritroviamo anche nella vita delle chiese. Nel mondo antico l’umiltà era la virtù degli schiavi; ma qui viene invece proposta come la salutare capacità di considerare gli altri superiori a se stessi. Gli altri, grazie ai quali c’è sempre da imparare. La ricerca del proprio interesse (potremmo tradurre il termine con il bene) e l’interesse degli altri. Bello questo plurale. Indica la comunità di fede in cui ognuna e ognuno ha da svolgere un proprio compito. Certo, per capire questo testo occorre viverlo, o almeno provarci. Cristo c’invita a farlo e a realizzare così il vero bene. Per noi e per gli altri.