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di Francesco Sciotto

«Dopo alcuni giorni Felice, venuto con sua moglie Drusilla, che era ebrea, mandò a chiamare Paolo e lo ascoltò circa la fede in Cristo Gesù. Siccome Paolo parlava di giustizia, di temperanza e del giudizio futuro, Felice si spaventò e replicò: "per ora va"; e quando ne avrò l'opportunità, ti manderò a chiamare". Egli sperava, allo stesso tempo, che Paolo gli avrebbe dato del denaro: per questo lo mandava spesso a chiamare e conversava con lui.»

L'apostolo Paolo ha passato buona parte del suo ministero itinerante in carcere. Dunque, altro che itinerante! Qui lo troviamo in carcere a Cesarea, in attesa di "traduzione" a Roma. A Gerusalemme, dove è stato arrestato, l'aria era divenuta irrespirabile per lui e la comunità nascente: l'establishement del Tempio, sommo sacerdote in testa, aveva addirittura ordito un complotto per farlo ammazzare. L'arresto e il trasferimento, così ci viene raccontata la storia dagli Atti, sono uno stratagemma dei Romani per proteggere Paolo. Insomma, varie incarcerazioni, mai una colpa! Chissà se le cose sono davvero andate come vuol farci credere Luca, autore degli Atti degli Apostoli? A Cesarea Paolo è tenuto in prigione dallo stesso governatore romano, Felice, che incontriamo in questo bozzetto. Felice pare affascinato da Paolo e chiede di incontrarlo più volte, perché la moglie, ebrea, è interessata alla predicazione su Gesù Cristo. Solo che parlando del Signore, Paolo finisce per affrontare temi seri e scottanti quali "giustizia, temperanza e giudizio futuro". Felice, navigato funzionario romano, se ne spaventa, perché è un corrotto, infatti si incontra spesso con l'apostolo nella speranza che questi paghi per essere liberato.

La storia di Paolo e Felice ci invita ancora oggi a riflettere sul nostro rapporto con la Parola di Dio. Spesso siamo da essa affascinati e le questioni teologiche attirano il nostro interesse. Tuttavia, se non siamo disposti a farci interrogare dall'urgenza della Parola, se la lasciamo relegata nell'ambito del vacuo interesse personale, la trasformiamo in qualcosa di incatenato; in un servo cui ogni tanto allentare la catena. Paolo si sottrae a questo gioco corruttivo: la Parola del Signore deve interrogarci sulla giustizia e sul giudizio di Dio. Egli preferisce restare in catene, più che sottostare alla logica di Felice. Così facendo, indica anche a noi la via da seguire: la Parola incarnata in Gesù deve continuare ad interrogarci sulla giustizia di questo mondo e sulla temperanza necessaria a contrastare corruzione e indifferenza.