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di Sabina Baral

Le chiese valdesi e metodiste si accingono ad iniziare un nuovo anno di attività. Numerose sono le sfide che esse si trovano dinanzi. Di alcune di esse abbiamo parlato con Paola Schellenbaum di Pinerolo e Luciano Zappella di Bergamo.

Le nostre chiese sembrano vivere una situazione di difficoltà. C’è chi parla di vera e propria crisi il cui sintomo più evidente è il calo dei membri di chiesa. C’è chi invece sostiene che i numeri non sono importanti e che ciò che conta è l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo. Voi come vi collocate rispetto a questi due poli della riflessione?

Paola Schellenbaum (foto Romeo/Riforma)

Paola Schellenbaum: La realtà delle nostre chiese è più variegata e complessa. Sono appena rientrata da un viaggio comunitario con membri di diverse chiese delle Valli valdesi in cui abbiamo potuto sperimentare la ricchezza dell'ascolto della Parola, del canto e dell'incontro con le piccole comunità evangeliche al Sud, così fragili ma anche vitali. Le nostre chiese possono essere luoghi dove la fiducia reciproca è ancora possibile ma per valorizzare questo bisogna ricominciare dalle relazioni di solidarietà, aprendosi agli altri e accogliendo nuovi fratelli e sorelle.

Luciano Zappella: “Crisi” è un termine di cui forse in questi anni si è abusato o che rischia di essere trasformato in un alibi. Certo i numeri non mentono: la diminuzione dei membri di chiesa esiste e con essa il calo delle contribuzioni. Ma è altrettanto pericolosa l’idea che la consistenza numerica sia il termometro per misurare la salute spirituale della chiesa. Forse cominciamo a contarci perché cominciamo a contare poco. Contiamo molto, per esempio, sull’otto per mille ma contiamo poco sulla nostra capacità di testimoniare l’evangelo di Cristo. È a questo punto, e solo a questo punto, che i numeri possono essere relativi. Perché è vero che gli apostoli erano dodici, ma dopo la Pentecoste il loro numero non è stato certamente un limite.

Il prof. Fulvio Ferrario ha scritto che la “liquidità” propria della nostra società è qualcosa che le nostre chiese non si possono permettere. Esse avrebbero bisogno invece di una “discreta robustezza di motivazione”. La fragilità non è però qualcosa che si sceglie, è una condizione. Come possono le chiese prendersi cura di questa debolezza?

Paola Schellenbaum: Non ci si può limitare a fotografare l’esistente ma occorre ricercare nuovi modi per favorire la partecipazione. Senza dimenticare che l’evangelo è una scommessa che rimane sempre davanti a noi. In questo modo ci si può aprire anche a chi è più debole e che può diventare inaspettatamente una risorsa. Nell’ultimo Sinodo è stata annunciata una ricerca sociologica per valutare la salute delle chiese. Luciano ZappellaCredo che essa sia una straordinaria occasione per una ricerca che solleciti il coinvolgimento e il cambiamento, inviti all’assunzione di responsabilità e alla riflessione in vista di una programmazione futura per le tante componenti della nostra chiesa.

Luciano Zappella: Non sono così sicuro che la fragilità sia qualcosa che non si sceglie; a volte è la conseguenza delle nostre scelte. E’ comunque vero che il rischio di lasciar fuori chi è più indifeso è tutt’altro che remoto. Io ho l’impressione che spesso ci prendiamo cura più dei fratelli e delle sorelle che frequentano regolarmente la chiesa che non di coloro che sono lontani, magari da anni. Sembriamo più preoccupati di non far scappare le novantanove pecore che di andare alla ricerca di quella che si è smarrita, magari perché le altre non l’hanno aspettata.
Come prendersi cura della debolezza? Direi con una buona dose di ricostituenti “evangelici”. Il cinquecentenario della Riforma rappresenta un’opportunità immediata per rimettere al centro il nostro essere figli e figlie di una Riforma che chiede di essere ridetta nell’oggi “liquido” ma che, per restare in metafora, non può essere diluita ad uso e consumo dei cercatori di sacro.

C’è chi dice che l’esiguità dei nostri numeri è dovuta al fatto che i riformati sono complicati. Il culto, la riflessione lo sono. Come è possibile andare verso una semplificazione del nostro messaggio senza scadere nel semplicismo?Sinodo delle chiese metodiste e valdesi (foto Romeo/Riforma)In effetti Gesù raccontava delle parabole e non si perdeva in discorsi sofisticati.

Paola Schellenbaum: Nella nostra società la comunicazione rischia di perdersi in un flusso continuo e semplificatorio che non consente una visione di insieme e una conoscenza approfondita. Nelle nostre chiese vi sono alcuni ambiti che resistono a tali semplificazioni perché è possibile una condivisione che favorisce l’aggiornamento e l’educazione alla fede. Il culto è uno di questi ambiti. Abbiamo dei predicatori e delle predicatrici preparati che raggiungono persone anche molto diverse tra loro. Perché, ribadisco, le nostre comunità sono variegate. A questo proposito non possiamo più pensare che l’impegno in chiesa sia per la vita o sia totalizzante: molti membri di chiesa hanno anche una vita lavorativa e sociale e questa è un'apertura importante perché è occasione di testimonianza all'esterno. Anche le forme della partecipazione potranno cambiare, nella gratitudine e riconoscenza per ogni occasione di condivisione.

Luciano Zappella: Che i riformati siano più complessi (più che complicati) è un tratto distintivo che va difeso e valorizzato, non come una nostra conquista ma come un dono del Signore. Ma l’esercizio di un ministero nella chiesa deve avere un che di gioioso; non può diventare un tour de force da cui si esce stremati (anche spiritualmente). Le nostre strutture ecclesiastiche sono spesso fagocitanti. Richiedono una forte motivazione ma anche energie fisiche e tempo a disposizione.
C’è poi il problema del linguaggio nell’annuncio della fede. Non si tratta di semplificare il messaggio ma Nel giardino della Casa valdese a Torre Pellice (foto Romeo/Riforma)di trovare modalità comunicative (verbali e non) che facciano sperimentare il carattere di urgenza e di inderogabilità dell’annuncio evangelico.

Se doveste spiegare ai nostri contemporanei l’importanza di Gesù per voi, cosa direste?

Paola Schellenbaum: Per me il messaggio evangelico è un messaggio di liberazione dalla paura, dalla schiavitù, dagli stereotipi e dalla rassegnazione. E’ un messaggio di apertura che mi permette di dialogare con altre fedi e culture su tanti argomenti, nel segno di un pluralismo che abbiamo imparato a praticare nella storia. Sta a noi essere creativi e propositivi per cercare interlocutori che il Signore non ci farà mancare.

Luciano Zappella: Direi che Gesù rappresenta la contestazione vivente alla religione intesa come una prestazione in vista di un premio e quindi l’invito a una sana critica alla religione. Rappresenta uno stare al mondo in una postura autenticamente laica, intesa come critica a un potere (civile o religioso) che non si pone in termini di servizio e di promozione umana. Da ultimo, ma anche a fondamento di tutto, direi che l’importanza di Gesù consiste nel suo aver sconfitto la morte. Non annullata ma sconfitta. Questo è, secondo me, l’annuncio che il mondo ha sempre più bisogno di sentir risuonare.

20 settembre 2016